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Trento, 17 marzo 2001
BRUNO KESSLER HA CAMBIATO IL VOLTO DEL TRENTINO
di Marco Boato
da l'Adige del 17 marzo 2001

Chiunque, al di là delle appartenenze politiche e culturali, abbia la serenità e l'obiettività di esaminare la storia del Trentino dall'inizio degli anni '60 all'inizio degli anni '90, non può che riconoscere che Bruno Kessler è stato l'uomo politico che più profondamente e nel modo più lungimirante ha lasciato la sua impronta, cambiando il volto di questa terra, anche nella dimensione regionale e nella sua proiezione nazionale.

Considero positivo il fatto che una via di Trento sia intestata al suo nome (e mi paiono davvero meschine le polemiche al riguardo) e che venga istituita una apposita Fondazione, raccogliendo una intuizione del suo grande amico Beniamino Andreatta nel giorno dei funerali di dieci anni fa. Ma personalmente avrei ritenuto giusto che la stessa Università di Trento fosse intitolata al suo nome, superando la pochezza di avergli dedicato soltanto un'aula (aula più direttamente legata a memorie studentesche e originariamente destinata a ricordare Mauro Rostagno, non dimenticato leader universitario a Trento e assassinato dalla mafia a Trapani nel 1988).

Ho conosciuto Bruno Kessler alla fine del 1963, vent'anni più giovane di lui. Kessler era presidente della Provincia, promotore del primo Piano urbanistico con Giuseppe Samonà, fondatore dell'Istituto trentino di cultura, a sua volta fondatore dell'Istituto superiore di scienze sociali. Io ero un giovane diciannovenne di origine veneziana appena iscritto a Sociologia, cattolico "giovanneo" (papa Giovanni era morto il 3 giugno 1963) ma non democristiano, profondamente interessato alle nuove scienze umane, ma anche ad un impegno politicamente laico nella vita universitaria. Fondai il Gdiut (Gruppo democratico Intesa universitaria trentina), nel quale si raccolsero i giovani di ispirazione cristiana, ma politicamente laici. Ne discussi anche con Kessler: mi propose un rapporto con la Dc di allora, che rifiutai, ma ciò nonostante fu disponibile ad aiutarci (lo rivelo oggi per la prima volta). Cominciò da allora un rapporto - a volte di incontro, a volte di confronto polemico, spesso tumultuoso - che non si è più interrotto nell'arco di quasi trent'anni, e che nel tempo divenne anche un legame di simpatia, di lealtà e di amicizia.

All'inizio del 1966 fummo noi studenti - ed egli ce lo riconobbe - a dare la spinta decisiva per l'approvazione parlamentare della legge di riconoscimento della laurea in sociologia, quando ormai si rischiava di arrivare alle prime lauree senza alcuna validità giuridica. Alla fine del 1966 mettemmo apertamente in discussione la gestazione segreta dello Statuto e del piano di studi: il confronto fu molto più difficile, ma alla fine si trovò un accordo positivo. Con quello statuto per la prima volta in Italia un rappresentante degli studenti entrava nel Consiglio di amministrazione, sia pure col solo voto consultivo. Gli studenti designarono me, e così il confronto con Kessler si spostò all'interno di quel Consiglio, dove c'erano anche uomini come Norberto Bobbio e Nino Andreatta (ma anche Tarcisio Andreolli, che è la memoria storica di quegli anni turbolenti, ma anche appassionanti).

Verso la fine del 1967, Kessler mi scrisse per chiedermi di collaborare al Piano urbanistico, per gli aspetti socio-culturali. Non accettai, ma mi colpì molto questa proposta fatta dal Presidente della Provincia ad un giovane studente.

Quando nel 1968 a Trento si sviluppò uno dei più originali movimenti di contestazione universitaria sul piano europeo (lo ricorda ancora oggi lo scrittore tedesco Peter Schneider, che vi ha dedicato il romanzo "Lenz"), anziché adottare la politica del "muro contro muro" Kessler affrontò il confronto a viso aperto e - insieme a Marcello Boldrini, Norberto Bobbio e Nino Andreatta - diede impulso a un profondo rinnovamento dell'impianto accademico e di gran parte del corpo docente. Tutto questo non fu facile per lui, contestato dall'interno stesso della Dc di allora (Flamino Piccoli lo accusò allora con una frase indimenticabile: "ci siamo allevati la serpe in seno"). Ma il progetto universitario andò avanti, anche se mancò allora l'auspicata dimensione regionale che coinvolgesse la provincia di Bolzano. Quest'ultima - prima con l'Accademia europea (vedi Itc) e poi con l'Università ancora ai suoi inizi - ha ripercorso lo stesso itinerario tracciato a Trento da Kessler, ma con trent'anni di ritardo.

Il 16 marzo 1978 venne rapito dalle Brigate rosse Aldo Moro. Lo choc fu enorme per tutti, ma Kessler (come Nino Andreatta) era "moroteo" e gli era profondamente legato. Dopo qualche giorno ci incontrammo riservatamente a casa sua, in via S. Bartolomeo, per discutere insieme cosa si potesse fare (anche questo lo rivelo oggi per la prima volta). Mi mise in contatto col segretario di Moro, che incontrai qualche giorno dopo a Roma. Il 20 aprile, chiamato a testimoniare a Torino di fronte alla Corte d'assise che processava le Br e i Gap, rivolsi un appello pubblico a Renato Curcio perché si pronunciasse per la vita di Moro. Kessler me ne fu grato e così anche Giovanni Moro, nonostante l'esito tragico del sequestro il 9 maggio successivo.

Ci ritrovammo colleghi parlamentari alla Camera nel 1979 e poi al Senato nel 1987 (dove c'erano anche Nino Andreatta e Norberto Bobbio, coi quali rievocavamo le ormai "antiche" vicende trentine). Nel 1988, da poco rieletto al Senato ma insoddisfatto del proprio ruolo nella vita politica romana (dove non vennero mai adeguatamente riconosciute le sue capacità, come era già successo a Piero Bassetti, ex-presidente della Lombardia), Kessler volle parlarmi riservatamente. Ci incontrammo a Trento e lui chiese il mio parere sull'ipotesi di abbandonare il Parlamento per ricandidarsi in autunno alle elezioni regionali e riproporsi alla guida del Trentino. Gli risposi che le sue grandi capacità a Roma mi sembravano sprecate e comunque sotto-utilizzate, per cui mi sembrava un'ottima idea, per lui e anche per il Trentino. Le cose andarono diversamente: questa strada gli fu sbarrata dal ricambio generazionale all'interno del suo partito, la Dc, e credo che ne soffrì molto. Come soffrì (e lo ammise pubblicamente) la vittoria poco dopo del referendum anti-caccia in Trentino, anche se non scattò il "quorum" nazionale di validità. Avevamo, ovviamente, idee profondamente diverse al riguardo, ma ne parlavamo spesso nei corridoi del Senato.

In quei corridoi e nell'aula del Senato continuò a venire quasi fino all'ultimo, ingaggiando una propria personale battaglia con la malattia: una battaglia che non poteva vincere, ma che combatté con straordinario coraggio e con grande dignità. Ogni settimana lo vedevo più magro e scavato, ma continuava ad affrontare i problemi politici, nazionali e trentini, di sempre. Quando morì, piansi come per la morte di un amico, rispetto al quale tante cose mi avevano diviso ma anche tante unito, con un dialogo sempre aperto, diretto e leale. Dopo dieci anni, ne provo ancora una grande nostalgia.

Marco Boato

 

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